Pillole di Fotografia
Biografia del Fotografo Elliott Erwitt – Storia della Fotografia
Elio Romano Erwitz nasce a Parigi ma passa in Italia la sua infanzia, fino al 1939.
In quell'anno la sua famiglia sceglie di trasferirsi negli Stati Uniti a causa dell’ascesa del fascismo, il quale rende l’Italia non più un luogo sicuro per chi ha origini ebraiche come gli Erwitz.
Negli Stati Uniti Erwitt studia sia fotografia che cinema
Per la precisione studia fotografia al Los Angeles City College e cinema alla New School for Social Research.
Anche lui come Chim vive la Seconda Guerra Mondiale tra le fila dell’esercito americano, in Francia e Germania, con una mansione legata alla fotografia, assistente fotografo nel suo caso.
Durante il suo periodo in Europa conosce Robert Capa, il quale, una volta visionato delle immagini che ha scattato ai commilitoni dell’esercito statunitense, lo invita ad entrare a far parte dell’agenzia Magnun. Siamo nel 1953.
Oltre che con Magnum, Erwitt ha anche la possibilità di collaborare con la Farm Security Administration, per la quale realizza un lavoro per la Standard Oil.
Il suo lavoro però è per lo più da fotografo freelance, collaborando con diverse riviste, tra cui le prestigiose Look e Life.
Realizza inoltre anche progetti per diverse aziende, anche molto grandi, come Air France.
Magnum è però la spinta che gli permette di avviare progetti in tutto il mondo, grazie alla sua visibilità decisamente migliorata rispetto a prima di entrare in agenzia.
Un soggetto molto amato da Erwitt sono i cani, a cui dedica quattro libri:
- Son of Bitch (1974)
- Dog Dogs (1998)
- Woof (2005)
- e Elliot Erwitt’s Dogs (2008)
Ha un modo di fotografare ironico, con una visione molto personale, ma estremamente lucida circa la realtà che gli si pone davanti.
La stessa ricerca sui cani è una lettura della realtà e un’analisi del rapporto che esiste tra l’Uomo e questa specie.
Dal 1970 decide di occuparsi di cinema, girando lungometraggi, documentari e spot televisivi.
Cosa Significa essere un fotografo D'avventura!
Raccontare avventure attraverso un contenuto multimediale, che siano fotografie o video, può sembrare una cosa semplice ma la realtà è che non è un lavoro per tutti.
Essere un fotografo d’avventura non è una professione che ti insegnano a scuola e nemmeno in nessun corso di fotografia.
È un processo di apprendimento che lo si può imparare solo sul campo, portando le nostre capacità fisiche e mentali sempre a uno step oltre, imparando a conoscere l’ambiente outdoor e tutte le sue sfaccettature.
Vorrei sottolineare la differenza che persiste tra vivere la montagna o il viaggio come fotografi paesaggisti oppure vivere il tutto come processo evolutivo sia a livello introspettivo che a livello d’immagine.
Dico questo perché gli standard di produzione fotografica in montagna sono dettati da “regole” che ormai sono insite in tutti noi, come ad esempio: la scelta della location vista su Instagram e la solita composizione vista e rivista.
Il fotografo d’avventura ha certamente i suoi programmi da rispettare ma le migliori produzioni si manifestano proprio quando ogni catena viene spezzata e inseguiamo l’imprevedibilità del caso.
Fare il fotografo d’avventura non è affatto un cammino per tutti quanti
Inconcepibile l’idea di lavorare dalle 9:00 alle 17:00, viaggiare leggeri, avere dei ritmi scanditi o dormire in comode camere d’albergo.
Questa professione richiede molto impegno, sacrificio, concentrazione e una grande dose di pazzia.
Fin dal primo momento in cui ho incominciato a scattare le prime fotografie non guardavo in faccia a niente, amavo prendere e partire nei momenti più inaspettati, non curare minimamente le mie comodità mirando esclusivamente ad un solo obiettivo: catturare storie di vita da condividere con la mia audience.
Intraprendere un percorso come il mio non è semplice, sotto tutti gli aspetti.
Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di condividere avventure con molte persone al mio fianco ma nessuno è riuscito a stare al passo.
Questo perché in questo settore non devi mai scendere a compromessi, non esiste dormire un’ora in più al mattino o fermare la produzione durante il maltempo, ma è la perseveranza e la completa caparbietà che ti fa raggiungere a tutti i costi contenuti sempre migliori.
Richard Avedon (1923 – 2004) Storia della Fotografia
Fin da ragazzo Richard Avedon si appassiona alla fotografia, avendo come modella sua sorella minore.
Nel 1942 si arruola nella marina mercantile, dove inizia a scattare le prime fotografie che non passano inosservate ad Alexey Brodovitch.
Ottiene così il suo primo ingaggio per Harper’s Bazar.
Nei 12 anni di lavoro ad Harper’s Bazar, Avedon inventa nuovamente la fotografia di moda, scegliendo di collocare le modelle in bar e locali, anche notturni, anziché le classiche pose rigide da servizio in studio.
Dopo la guerra viaggia molto in compagnia della prima moglie e comincia in questo periodo a nascere il suo linguaggio fotografico, basato sul vuoto attorno al soggetto: per lo più sceglie sfondi bianchi o grigi.
Avedon è reticente verso il mondo del fotogiornalismo, non riesce a farsi andare giù l’idea di fotografare senza il permesso del soggetto ripreso.
Tanto è convinto di questo che quando Life gli commissiona un lavoro, con un anticipo di 25mila dollari, lui li restituisce quasi subito perché il
risultato non lo convince.
Secondo il fotografo solo la piena consapevolezza da parte del soggetto rende lo scatto non lesivo della privacy della persona ritratta.
Nel 1959 nasce Observations, il suo primo libro contenente ritratti di celebrità in bianco e nero
Nel 1964 arriva il secondogenito, Nothing Personal, anche questo in bianco e nero, ma stavolta parliamo di una critica alla società americana, in cui racconta con una vena di ironia le difficoltà di quel mondo.
Con l’evolversi del proprio linguaggio, Avedon arriva a fare un ragionamento interessante: trova che la macchina fotografica crei un filtro tra lui e il soggetto, filtro che lui non apprezza, cercando così per quanto possibile di guardare in faccia il proprio soggetto, senza nulla in mezzo.
La tensione che si genera tra fotografo e soggetto è parte integrante della sua ricerca.
Estremamente interessanti sono i ritratti che ha scattato a suo padre, di un’intensità straordinaria.
Importantissimo anche In The American West, lavoro di ritratti itineranti in cui decide di raccontare un’altra faccia della medaglia dell’America
Dei lavori di Richard Avedon potremmo andare avanti a parlarne per giorni, questi sono solo alcuni esempi significativi.
Quello che del suo lavoro funziona davvero è la sensibilità con cui guarda i propri soggetti, con cui studia le espressioni, l’attenzione che rivolge loro a prescindere da chi essi siano.
Il lavoro sul padre è un esempio lampante di come non serva avere davanti all’obiettivo una celebrità o una modella per saper tirar fuori un lavoro con un’intensità eccezionale.